giovedì 2 febbraio 2012

Storie

Aveva la testa come di un piccolo animale: un capriolo, un cucciolo di cerva dal muso appuntito. Piccola era poggiata contro il finestrino del treno.
La pelle conservava ancora le tracce eburnee di una quieta fanciullezza, un divenire ineluttabile in cui la giovinezza gli rigava, seguendo la direzione promessa delle sue folte ciglia, le guance di una sottilissima barba: aghi minuti di pino marittimo su un selciato di sabbia battuta.
L'inclinazione del capo, leggermente ruotato verso l'alto, come bloccato sotto una coltre di pensieri accatastati e parole brumose, aveva in un movimento lento, gocciante di eterno, riavviato delle ciocche disattente di capelli boccoluti sulla fronte come tralci di vite scomposti dalle mani di un passante, nella vigna, dopo la frescura.
Conservava nella postura rilassata ma eretta, esile come una canna, la quiete di un San Giovannino rubata a chissà quale tela, imbastita sui suoi tratti spigolosi, ancora acerbi, ma regali come costellazioni in tiro.
Portava a spasso la sua voluttà, incosciente, in quelle gocce di cielo azzurro raccolte nella conca lanceolata dei suoi occhi, un deposito di acqua passata, stagnante e vitrea.
La sua bellezza aveva rotto gli argini del suo volto, stretta com'era tra le fila dei suoi denti di conchiglia lievemente in mostra tra le labbra, per andare incontro al mondo, così, in una mattina grigia d'inverno e in tutte quelle a venire.
Umida di vertigini avrebbe bagnato i giorni, i mesi, gli anni, come una pioggia purissima, universale, che ci avrebbe lasciati fradici di un tepore nuovo, di celeste, di azzurro, di squarci di cielo selvatico.
L'ovale del suo viso acuminato era ormai uno scrigno capace di contenere un oceano immenso... con tutti noi alla deriva.

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